Tra i canti più struggenti e antichi della tradizione abruzzese, “Scura maja”, conosciuto anche come “Mara maje” o “Maramaje”, occupa un posto speciale. Questo lamento funebre, tramandato oralmente per generazioni e giunto fino a noi in diverse varianti dialettali e melodiche, rappresenta una delle più toccanti espressioni del dolore popolare. Il titolo, traducibile in italiano come “Povera me”, racchiude già tutto il senso di una sofferenza profonda e collettiva: la voce di una donna rimasta vedova, la solitudine, la miseria, la dignità ferita.
Il canto, diffusissimo in tutto l’Abruzzo ma anche in parte del Molise e della Campania settentrionale, è un documento di eccezionale valore etnografico e linguistico. Le versioni si differenziano da paese a paese, ma l’anima è sempre la stessa: un grido di dolore femminile trasformato in poesia popolare, un racconto di sopravvivenza e di memoria.
Le prime tracce scritte di “Scura maja” risalgono al XVIII secolo, quando il poeta di Scanno Romualdo Parente ne trascrisse il testo in una raccolta di poemi dialettali. Lo studioso Giorgio Morelli, che ne curò un’edizione moderna, spiegò come questo lamento fosse l’espressione di un’antica costumanza funebre, quasi un rito collettivo attraverso il quale le donne, con il canto, esorcizzavano il dolore della perdita.
Nel secolo successivo, l’erudito abruzzese Antonio De Nino (1833–1907) riferì che il componimento era formato da 17 strofe e che, intorno al 1830, era stato messo per iscritto da Sebastiano Mascetta di Colledimacine (Chieti). La versione che oggi conosciamo è una sintesi di quelle antiche trascrizioni, una forma poetica che conserva il ritmo del pianto, la ripetizione come respiro affannato e il dialetto come lingua dell’anima.
Nelle prime strofe, la donna piange la morte del marito, invocando la sua assenza e la propria disperazione. Racconta la perdita della casa, del cibo, della protezione e della dignità. Il “compare” — colui che per usanza doveva soccorrere la vedova — si rifiuta di aiutarla, mentre la fame e la povertà diventano nemici quotidiani.
Nei versi successivi il tono si fa più crudo, quasi disperato, fino a evocare la vendetta e la maledizione, ma il canto si chiude con una nota di ironica rassegnazione: la speranza di trovare un nuovo compagno, “anche se brutto come uno sterpo”, pur di non restare sola.
Scura maja – Povera me
Scura maja, scura maja!
Te si’ muort’ chigna facce?
Mo me stracce trecce e facce,
Mo me jatte ’ngoj’ a taja:
Scura maja, scura maja!
Primma tenea ’na casarella,
Mo ’ntieng’ chiù reciette.
Senza fuoche e senza liette,
Senza pane e cumpanaja:
Scura maja, scura maja!
M’ha lasciata ’na famija
Scàuza e nuda, appetitosa;
E la notte ci sgeveja
Vûne ju pane e i’ ne’ l’aja:
Scura maja, scura maja!
Ieri jeje a ju cumpare,
A cerché la carité,
Me feceje’ ‘na strellota
Me menaje ’na staja:
Scura maja, scura maja!
Sci’ mmajtt’, sci’ mmajtt’,
Quanno bene ch’ ’nt’ aje fatte!
Pe’ lu scianghe de la jatta
Pròpia straja m’aj’ a faja
Scura maja, scura maja!
E la notte a l’impruvisa,
Quann’ durme, a l’ensaputa,
Aja ’ntrà’ pe’ la caùta,
Tutt’ le scianghe me t’aja vaja:
Scura maja, scura maja!
Stava grassa chinta a ’n’orsa,
Me so’ fatta scecca scecca
’Nc’ è nu cone che me lecca,
Chi me scaccia e chi m’abbaja:
Scura maja, scura maja!
A ju ciel’ che ’nci aje fatt’?
A ju munne puverella,
So’ remasta vudovella,
Mo m’arraja, mo m’arraja:
Scura maja, scura maja!
Oh! ju ciele, famm’ascì,
Pe’ marite nu struppone
Ca se n’aje ju muntone,
La cacciuna sempre abbaja:
Scura maja, scura maja!
Traduzione in italiano
Povera me, povera me!
Tu sei morto e io come faccio?
Ora mi straccio trecce e faccia,
Ora mi getto in collo a te:
Povera me, povera me!
Prima tenevo una casetta,
Ora non ho più rifugio,
Senza fuoco e senza letto,
Senza pane e companatico:
Povera me, povera me!
Mi hai lasciata una famiglia
Scalza, nuda e affamata;
E la notte si sveglia
Vuole il pane e io non l’ho:
Povera me, povera me!
Ieri andai dal compare
A cercare la carità,
Mi fece una sgridata,
Mi colpì con una stanga:
Povera me, povera me!
Sii maledetto, sii maledetto,
Quanto bene ti ho fatto!
Per il sangue di una gatta
Proprio strega mi devo fare:
Povera me, povera me!
E la notte, all’improvviso,
Quando dormi, all’insaputa,
Devo entrare dal buco della porta,
Tutto il sangue ti devo bere:
Povera me, povera me!
Stavo grassa come un’orsa,
Mi sono fatta secca secca,
Non c’è un cane che mi lecchi,
Chi mi scaccia e chi mi abbaia:
Povera me, povera me!
Al cielo che ho fatto?
Al mondo poverella,
Sono rimasta vedovella,
Ora mi arrabbio, ora mi arrabbio:
Povera me, povera me!
Oh, cielo, fammi uscire
Per marito uno sterpone
Che se non ha il montone,
La cagnolina sempre abbaia:
Povera me, povera me!
“Scura maja” non è soltanto un lamento funebre: è una finestra sull’animo delle donne abruzzesi di un tempo, forti e fiere nella sofferenza, ma capaci anche di usare la parola come gesto di resistenza. Nella cultura popolare, il lutto era un momento collettivo: le donne intonavano canti simili durante i funerali, alternando pianto e recitazione, per accompagnare l’anima del defunto e dare voce al dolore della comunità.
Ciò che colpisce è il tono oscillante tra disperazione e ironia. La protagonista, pur devastata dal dolore, trova ancora la forza di maledire, di scherzare sul proprio destino, di sperare in un futuro diverso. È una testimonianza viva del modo in cui la cultura contadina seppe trasformare la tragedia in canto, la sofferenza in linguaggio poetico.
Oggi “Scura maja” sopravvive grazie ai gruppi di canto popolare e agli studi etnomusicali, che continuano a riproporla come simbolo della memoria abruzzese. È un canto di donne, ma parla a tutti: di perdita, di dignità, di vita che continua anche quando sembra impossibile.
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