Zia Rocchina, moglie di zio Vittorio il cantiniere, una donna esile, bassa, con voce gracchiante, capelli grigi tirati e raccolti a formare un tuppo, aveva un viso con tante rughe, quanto le difficoltà della sua vita.
Con un figlio paralitico, che aveva bisogno di continue cure, lei aveva imparato ad usare la siringa: già, la siringa di vetro, unica e sola, bolliva e ribolliva in quel piccolo contenitore di alluminio rettangolare con il manico a coperchio, ha bucato più panettoni (popò) lei che la Bauli nel mettere la crema.
Per noi ragazzi la siringa è stata l’atomica del nostro decennio, alla sua pronuncia si spariva, io Rocchina la conoscevo bene , perché da bambino ero di fragile costituzione, sempre con dolori alle gambe, senza voglia di mangiare; le iniezioni di calcio erano il mio pane quotidiano.
Lei fungeva da assistente all’anziano medico chirurgo, che in un passato non troppo lontano, pare sia stato il podestà del nostro piccolo centro, senza recriminare quello che fu, con duro lavoro e professionalità si integrò nella nostra vita social popolare senza strascichi politici. Il medico ordinava… dieci iniezioni e zia Rocchina eseguiva. Quando la mattina presto la vedevo passare per la strada tremavo, come quando l’insegnante scorreva il dito sul registro: come a dire vediamo un po chi buchiamo oggi?
La ricompensa per Rocchina, erano delle uova fresche, un po’ di olio, qualche kg di farina e quando non avevano niente da darle le bastava un grazie. Come si fa a non voler bene a questo passato che senza rammarico né malinconia, ma con gentile umanità, ci ha permesso di essere vivi?
Oggi sembriamo come annebbiati, frastornati, talvolta ubriachi da indubbie realtà virtuali senza saper riconoscere quale è il senso della vita.
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