Il suono del campanone, la farchia che arde, il profumo del maiale arrostito. Una festa che racconta il Molise di un tempo, tra devozione, terra e fraternità
Il 17 gennaio, a Rocca, si celebra Sant’Antonio Abate (Sand’Andònie), il santo eremita protettore degli animali, molto vicino alla vita e ai bisogni dei contadini. Egli viene invocato contro le avversità atmosferiche e i malanni delle bestie, in un rito che da secoli scandisce la vita agricola del paese.
Dopo la novena, la statua lignea del santo, custodita nella chiesa madre di San Michele Arcangelo, viene portata in processione fino alla cappella a lui dedicata, situata nella zona periferica del paese. Nel pomeriggio la statua, portata a spalle, attraversa Piazza Portella, dove un tempo i contadini radunavano gli animali per la benedizione impartita dal parroco Don Duilio. Cavalli, buoi e asini erano ornati a festa con barde, selle e tessuti colorati di lino e lana. La benedizione li proteggeva, secondo la credenza, da pestilenze, fulmini e saette.
Quel giorno il paese si riempiva di gente: uomini in abiti buoni, donne in devozione, bambini affascinati dai riti. Gli anziani seguivano il sacerdote con emozione, certi che Sant’Antonio li avrebbe protetti. Finita la cerimonia, il simulacro veniva riportato in trionfo per le vie, accompagnato dalla banda locale e dal rintocco del campanone di San Michele. Gli “spari” finali illuminavano la valle, mentre un gruppo di cantori intonava l’antica litania:
Sand’Andònie de Jennàre
mèzza paglia a lu pagliàre,
Sand’Andònie z’è ne scappate…
E dal fuoco e dal demonio
ci difende Sand’Andònie.
Nel frattempo, bruciava la Farchia[2], un enorme fascio di canne che con la sua fiamma pareva scacciare gli spiriti maligni e purificare il paese. La festa proseguiva poi con un altro simbolo del mondo contadino: il maiale.
Il Comitato feste acquistava alle fiere di Canneto un maialino di circa venti chili, che veniva lasciato libero per le strade del paese. Ogni famiglia lo nutriva: chi con avanzi, chi con fave o crusca. Quando arrivava il freddo, l’animale, ormai cresciuto, veniva venduto e il ricavato serviva a finanziare la festa del Santo.
L’uccisione del maiale avveniva solo in luna calante, con aria fredda e secca, secondo il lunario di Barbanera. Le donne con il mestruo non potevano partecipare alle fasi di salatura e conservazione della carne, ritenute delicate. All’alba, parenti e vicini si riunivano per aiutare. Si preparavano caldaie d’acqua bollente, coltelli affilati e il paranco per sollevare la bestia. Dopo la sgozzatura, il sangue veniva raccolto per preparare sanguinacci dolci o salati.
La sera arrivava la parte più attesa: la tavolata. Si servivano mezzi ziti con il ragù di maiale, spezzatini, soffritti e pane fresco, accompagnati da vino rosso dell’ultima annata. Si cantava, si ballava e si parlava della vita contadina, della fatica e della solidarietà. Il giorno seguente si procedeva alla lavorazione delle carni: prosciutti, salsicce, soppressate e ventresche, che le donne legavano a mano e conservavano sotto sugna o olio.
La festa del maiale era un momento di comunità e condivisione, occasione per rinsaldare legami e riscoprire l’appartenenza. Nel ricordo degli anziani rimane come simbolo di un mondo semplice, fatto di rispetto, umiltà e solidarietà, dove il lavoro e la devozione si mescolavano nel ritmo antico della terra.
[1] Tratto da Pane e Vino, di M. Antenucci. Un libro che raccoglie memorie e tradizioni della rinascita rurale del Molise.
[2] Farchia: grosso fascio di canne legate a mano con rami di salice rosso, alto fino a otto metri, acceso come fuoco propiziatorio.
Copyright: Altosannio Magazine — Editing: Enzo C. Delli Quadri
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