Poesia di Gustavo Tempesta Petresine[1] tratta dal suo libro “Ne cande”[1]
‘Ne penziere
Ciéle de marze ca chiuòve l’acca ‘n dèrre
‘mbùnneme chéscta coccia e quìscte piétte.
‘nzùppeme re cerviélle,
trapàneme re core,
trattienete ‘na ‘nzégna de delore
Ciéle de marze, quanda chiuòve a zeffùnne
amméscca chiscte lacreme a chess’acca.
Famme murì ‘na notte.
Fammene je ott’ore.
Trattiénte ‘na ‘nzégna de delore
Un pensiero
Cielo di marzo che piovi l’acqua al suolo
bagnami questa testa e questo petto.
Inzuppami il cervello infradiciami il cuore,
trattieniti un minuscolo dolore.
Cielo di marzo: quando piovi a dirotto
mischia queste lacrime alla tua acqua.
Annullami per una notte,
fammi morire per otto ore,
trattieniti un minuscolo dolore.
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[1] ‘Ne cande, nasce da un percorso accidentato, da un ritrovare frammenti e “cocci” di un vernacolo non più parlato come in origine, da mettere insieme in un complicato puzzle. I termini sono proposti cercando di rispecchiare la fonetica che fu propria del parlare dei nostri nonni, ascoltati in prima persona e qui proposti. Il “canto lieto”, quello che trattava di feste, amori e piccola ironia dove si contemplava il fluire non privo di stenti, di un vivere paesano, è svanito negli anni.
Copyright: Altosannio Magazine
Editing: Enzo C. Delli Quadri
☆☆☆
Una poesia molto complessa nella sua brevità, di Gustavo Tempesta Petresine.
Nella sua interpretazione letterale ogni persona può ritrovarsi in quello che viene detto nella poesia.
Come una persona che, di fronte ad una notizia improvvisa, o colpito da un dolore senza “rimedio”, vuol “punire” se stesso … per cercare di alleggerire il suo grande dolore ed invoca una forza della natura, la pioggia di marzo, per essere sollevato, affinchè questa benevole forza della natura “dilavi” il dolore che ha invaso il suo essere, che dilania il suo cuore, che opprime il suo animo e ne porti via una “piccola parte”, … almeno un “pochettino”, per lenire il suo dolore, la sua disperazione …