di Gianni de Gennaro
Era una limpida mattina quella dell’8 dicembre 1943. Nella conca aquilana, sotto un tiepido sole, il cielo terso risplendeva di un azzurro intenso. I bambini rimasti a casa per la festa dell’Immacolata guardavano, come ormai accadeva dal mese di agosto, grossi e lenti aerei sbucare da dietro le montagne. Erano le 11. Anziché attraversare pigramente con il loro rombo cupo e assordante il cielo per poi sparire di nuovo dietro altre montagne, questa volta tre squadriglie di nove bombardieri si diressero verso lo scalo ferroviario e le vicine Officine carte valori della Banca d’Italia.
Superata la zona di S. Maria Paganica, i bimbi videro cadere dagli aerei e scendere in un clima surreale, quasi magico, grappoli di scintillanti oggetti che colpiti dai raggi del sole creavano riflessi ora argentei, ora dorati. Di colpo laggiù, vicino allo scalo ferroviario, gli scintillanti oggetti toccando il suolo esplodevano, alzando grandi nuvole di polvere, con sinistri scoppi che mandavano in frantumi i vetri delle finestre anche a grande distanza. Per tre volte gli aerei ripassarono sulla zona, sganciando altre micidiali bombe.
Dopo l’inferno, una moltitudine di dannati insanguinati, sporchi, molti senza scarpe, salivano dal distrutto scalo ferroviario verso la città. Tra loro si distinguevano alcune donne che indossavano un camice blu. Erano le operaie dello stabilimento delle Officine carte valori, costruito pochi anni prima accanto allo scalo ferroviario, chiamate a lavorare nonostante la giornata di festa, per aumentare la produzione delle banconote. Narrano testimoni oculari che alcune di loro, chiuse all’interno dei locali per motivi di sicurezza, pur di fuggire dal fuoco e dal fumo si gettarono nelle gelide acque del fiume Aterno. Altri riferiscono di uno spettacolo allucinante, il piazzale della stazione era pieno di corpi orrendamente mutilati mentre grida e lamenti ancora provenivano dai vagoni sventrati.