di Domenico Meo[1] – tratto da Riti e Feste del Fuoco – Volturnia Edizioni
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A Belmonte del Sannio, la torcia della vigilia di Natale è chiamata ndòccia. Si costruisce con le canne tagliate nel periodo di luna calante di gennaio. Prima della diffusione dei moderni vigneti a filari, si recuperavano le canne adoperate a sostegno delle viti o delle piantine di fagioli. Alla punta della torcia, per facilitare l’accensione, si pone qualche rametto di ginestra. Viene legata con spago e fil di ferro,[2] è alta circa tre metri, ha forma conica e spessore variabile.[3] A comporre le ndòcce, qualche giorno prima della festa, sono generalmente i genitori che poi le accendono insieme ai ragazzi.
Attualmente, in paese, all’imbrunire, ardono una diecina di torce, mentre nelle tantissime borgate sparse nell’agro, bruciano davanti la masseria o sull’aia, creando uno scenario suggestivo nella vallata del fiume Sente. Le ndòcce, tutte singole, si lasciano consumare vicino casa, conficcate a terra o legate al muro con uno spago o con un filo di ferro, mentre i ragazzi o i giovani, a volte, ci giocano tenendole in braccio.
Sino agli anni Sessanta del secolo passato si lasciavano bruciare anche davanti il sagrato della chiesa del Santissimo Salvatore, oppure portate a spalle, in una sorta di sfilata spontanea, si recavano fino alla periferia o al Monte Calvario.
Il particolare più significativo, sino a oltre mezzo secolo fa, era rappresentato dal fatto che i contadini di Belmonte del Sannio, usavano la ndòccia per illuminarsi il cammino che li conduceva alla messa di mezzanotte, pə scàllà rə Bbambənìllə, per riscaldare Gesù Bambino.
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Anche a Capracotta era chiamata ndòccia, veniva allestita chə rə cərvəgljuòlə (con i meliloti), che abbondavano presso le sorgenti del Fiume Verrino, a sud del paese. Qui, in contrada Guastra, che fino a quasi cinquanta anni fa, contava 75 casolari con circa 500 abitanti, i capracottesi, la sera della vigilia, facevano ardere le ndòcce precedentemente allestite. Esse, legate chə lə tòrtəra (legami di vitalba), erano abbastanza spesse e alte circa tre metri. Il rituale andò in disuso con le forti distruzioni subite dal comune dell’altissimo Molise, durante il Secondo Conflitto Mondiale.
[1] Domenico Meo, Abruzzese di Castelguidone (CH), ma agnonese di fatto, lavora alla Asrem di Agnone (IS). Si occupa, in termini scientifici, di dialetto, riti, usi e tradizioni popolari. Tanti i suoi libri, su cui giganteggia il Vocabolario della lingua di Agnone.
[2] Un tempo per la legatura si adoperavano sarmenti di vitalba (vətiàcchjə), legami di salice o vitigni selvatici.
[3] Si parte da un diametro 10-15 cm, per arrivare fino ai 60-70.