Usi e Costumi trascritti da Oreste Conti nel Libro “Letteratura Popolare Capracottese” edito da Luigi Pierro, Napli 1911[1].
Le donne, in genere, sono loquaci; quelle del popolo, specialmente, perché piene di impulsività, sono facili all’amore e all’ira, onde, per una parola, per un gesto, per un malinteso, trascendono subito all’alterco, all’insulto che finisce in rissa. L’arma della donna è la lingua e, con questa, accanitamente combatte. Le offese, limitate dapprima alle loro poco rispettabili persone, si estendono, ben presto, ai parenti vivi e morti.
- “La faccia t’aja é capace de chesse e cchiù de chesse, ca nen tié unore e manche vgergogna e tutte ru munne é ru tié” –
- “Chigna. E tu, dissiparrobba, iuste tu vuò parlà? Tu ca nen te sié saputa fa mia re cunte e nen pienze che a fa panunte e vevete de vine!!!”
E qui, mentre una delle protagoniste séguita la diatriba feroce e voi credete che sia il principio della fine, ecco che la terribile avversaria ricompare dall’alto della finestra, con una compagna poco ragguardevole … la scopa, che lascia penzoloni di fuori, non senza farsi sfuggire, evidentemente soddisfatta, un :
- “Parla che chesta che é la para téia”
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[1] Nota dell’autore: per 4 anni, nel breve periodo delle vacanze estive, mi sono recato tutti i giorni nelle nostre remote campagne, a raccogliere i canti dei nostri montanari, or lamentevoli, or dolci, ma che sempre esprimono il sentimento del mistero della vita, la tristezza impenetrabile dell’ amore.
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Editing: Enzo C. Delli Quadri