Scritto di Maria Delli Quadri [1]
Anni fa Nicola Di Bari cantava:
Ho preso la chitarra
e suono per te
amore, amore, amore
è quello che so dire
ma tu mi capirai…:
I prati sono in fiore
profumi anche tu
ho voglia di cantare
e non te lo so dire
ma suono per te
La prima cosa bella
che ho avuto dalla vita
è il tuo sorriso giovane, sei tu…
(Le parole non sono tanto precise, ma il significato è quello)
e… poi il cantante continuava la melodia con voce intonata e quasi baritonale. . La canzone era gradevole e negli anni ha conquistato successo, tanto che in tutte le trasmissioni musicali melodiche, è ancora oggi un cavallo di battaglia.
Ma io ricordo un altro tipo di chitarra, quella che stava nelle case di tutto l’Altosannio e ad usarla era la donna in certe occasioni speciali come S. stefano, Lunedì in Albis, Carnevale, il 1 maggio, l’onomastico del capofamiglia.
Ricordo ancora la voce della mamma: “Marì, vo’ mmassà du maccariune che l’eua?” (Maria, vuoi impastare due maccheroni con le uova?)
E io:” scioine, famme soldande fenoj la versieune de latoine” ( Si, fammi solo finire la versione di latino”)
E si, perchè io ero studetessa di liceo, lavandaia, impastatrice di pane, donna tuttofare, lavastoviglie naturale.
Trovavo già pronto “ru taurille” (Agnone) la “mesa” (Capracotta) sulla tavola, con un bel mucchio di farina, un piccolo cratere al centro , dove s’introducevano gli ingredienti: tre o quattro uova già rotte, un goccio d’olio e uno sorso d’acqua con un pizzico di sale. Così cominciava il lavoro dell’impasto che, alla fine, doveva essere duro, pena la non riuscita dell’opera. Spingi e spingi, gira e rigira, liscia e riliscia, sciacquati le mani ogni tanto, aggiungi farina, alla fine si formavano una, due, tre panelle da spianare col matterello ( ru cannielle). L’arte consisteva nel fare le sfoglie tonde tonde e sottili al giusto punto, per poi tagliarle a strisce,infarinarle e ripiegarle in un angolo della tavola.
E qui entrava in scena lei: la mitica chitarra artigianale che si vendeva nelle fiere paesane . Non quella di Nicola Di Bari o la “Chitarra romana”; da me cantata che avevo due anni seduta sullo scalino del portone, né quella di mio padre che suonava motivetti allegri e pimpanti o L’Internazionale; era quella casereccia formata da un telaio rettangolare, su cui erano stese le corde per tagliare la sfoglia. La si tirava fuori da un sacchettino bianco e con delicatezza la si poggiava sul tavolo. Indi, munita di matterello, ferro di maglia o cannuccia di legno, più spazzola e farina si cominciava. Mezza striscia di pasta veniva stesa sulle corde,poi il matterello passava e ripassava da giù verso su, premeva e tagliava la sfoglia che però rimaneva prigioniera, chiusa tra i fili. La “scopetta”, a questo punto, cominciava il suo lavoro: , su e giù, batti e ribatti,,fin quando le corde premute facevano il miracolo, liberavano i maccheroni che, dolcemente si adagiavano sul piano e mezza striscia cadeva sotto, sulla mesa; s’infilava allora il ferro nel punto di congiunzione e si ripiegava l’altra metà. Così si ricominciava: dall’alto verso il basso questa volta su e giù, su e giù; infine, piano piano si estraeva il ferro con tutti i maccheroni appesi e poi, accompagnandosi con l’altra mano, delicatamente la pasta gialla, profumata, lunga veniva appesa a un bastone per farla asciugare.
L’operazione veniva ripetuta tante e tante volte, finchè tutta la pasta non fosse diventata “maccheroni alla chitarra” o maccariune che l’eua e la pertica non si fosse riempita. Tutti uguali i fili: profumavano di casa, di fresco, di genuino, pronti per essere gustati come piatto prelibato delle feste. In un angolo del camino, su una fornacella, bolliva piano piano il ragù di agnello.
Era festa quel giorno: festa religiosa, ricorrenza particolare, s. Giuseppe o quella dei lavoratori.(1 maggio)
L’attesa era grande e noi ragazzi, al solo pensiero del pranzo prelibato, gironzolavamo in cucina anche solo per sentire quei profumi che, per me, sono rimasti unici.
La chitarra è stata quasi ovunque riposta; qualcuna resta appesa nelle cucine degli amanti delle antichità, “re maccariune che l’eua” si chiamano “chitarrina, crijuoli e non sono mai passati per questa strada, troppo difficile e impegnativa. Il progresso è anche questo.
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[1] Maria Delli Quadri, Molisana di Agnone (IS), già Prof.ssa di Lettere oggi in pensione. Ama la musica, la lettura e l’espressione scritta dei suoi sentimenti.
Non ricordavo questo pezzo meraviglioso. grazie a chi lo ha ripreso.
Non ricordavo questo pezzo meraviglioso. grazie a chi lo ha ripreso.
Riprendo tutti i tuoi bellissimi articoli, nessuno escluso. Ovviamente, pian piano durante l’anno.
Cara MARIA, così precisa la descrizione per fare la “chitarra all’uovo” che saprei farla anch’io…Sai io da ragazza nn l’ho mai fatta, mentre spesso facevo le tagliuline o le lahanelle- fettuccine -all’uovo, alla festa! Più spesso ancora i cavatelli nel pomeriggio, prima di fare i compiti – latino o altro come dici tu e spesso qualche amica mi aiutava e quindi facevamo dopo i compiti insieme… Anch’io l’ho raccontato in una passata “bustina”.Mentre come te ho cantato senz’altro e con gusto la canzone della chitarra di Nicola di Bari….Ma che bella memoria la tua : ricordi di cose anche da piccolissima… e forse la musica in particolare, visto che ancor oggi l’ascolti volentieri.